Seint’mo chè ( s’ ) la cèlla
Un’ipotesi sull’etimologia del nome tradizionale della canna del canto della piva emiliana
Di Marco Mainini
Le appassionate e appassionanti ricerche svolte anni or sono da Bruno Grulli hanno “portato alla luce” non solo uno degli strumenti più belli dell’interastoria musicale dell’umanità, scintilla ispiratrice per liutai e musicisti a venire ma anche i termini con cui tradizionalmente erano indicati i vari pezzi che compongono la piva di cui uno in particolare ha destato in me notevole curiosità.
Se da un lato le parole “ burdoun” ( bordoni ) e “pivein” ( ancia, ancie ) appaiono abbastanza in linea con le corrispondenti italiane, più o meno dirette, al contrario il termine con cui viene indicata la canna del canto non ha attinenza con nessun altro termine utilizzato per dare un nome alla stessa parte dello strumento in altre realtà, italiane o estere, dove è presente una varietà locale di cornamusa.
Quello che è universalmente definito col termine “chanter”, che i galiziani chiamano “punteiro”, che si chiama “diana “ nel bergamasco eche viene chiamato “manèta” nel caso della cornamusa piacentina, se si parla di piva emiliana diventa la “scèlla” ( pronunciato non con il suono sce di scemo ma bensì tenendo la s separata da cèlla come se fosse s+cèlla ); ben diversa quindi dagli altri termini; tanto che viene da chiedersi: - ma cosa vuol dire?
L’unico termine tecnico a me noto di pezzo di cornamusa che può in qualche modo tradire una radice o un origine comune al nostro scèlla è quello del terzo bordone montato su alcune gaite galiziane, quello piu corto, acuto e squillante : il “chillòn” ( dove ovviamente chi si pronuncia ci ).
Guarda caso siamo all’interno di un’altra area linguistica che, come nel caso del’area delle parlate emiliane, ha avuto una forte influenza linguistica germanica…e allora l’ipotesi è che l’etimologia della parola “scèlla” sia la stessa della parola italiana “squilla”.
Questo termine, col quale si indicavano campane, campanelli e campanellini prima della nascita delle campane non è infatti di discendenza latina ma deriva dall’antico alto tedesco scella o scëlla ( nel tedesco moderno schelle, pronuncia scelle = campanellino ), simile all’antico franco skëlla ( sonaglio, campanellino ), termini connessi al verbo scëllan o skëllan ( nel tedesco moderno schellen = risuonare) e ancora alle parole skall, scall che nell’ a. a. ted. significano suono ( oggi schall ).
Considerando ora che il suono sce, sci non è previsto nelle parlate emiliane e che spesso e volentieri i suoni duri sche, schi vengano trasformati in s+ce, s+ci ( e qui si potrebbe aprire un’intero dibattito su come sia meglio trascrivere questo suono: s’ce… s-ce… sče….? ) come nel caso di schiaffo Þ s-ciaf , scoppiareÞ s-cioper , si può ipotizzare che i termini germanici scella, scëlla, skëlla siano entrati nell’uso locale sotto forma di scèla ( o se credete s’cela o s-cèla oppure sčela ).
Sappiamo però che il dialetto che si parlava all’epoca era ben diverso da quello attuale; se non dal punto di vista grammaticale e fonetico lo era sicuramente dal punto di vista del vocabolario; tanti dei termini usati un tempo sono ora dimenticati.
Nella mia memoria di parlante non trovo un termine che traduca l’italiano squilla e il relativo verbo squillare.
Se dovessi tradurre “senti come squilla” potrei dire, provando un’immediata fitta lancinante al fegato, “ seint s’la squèla” e dovrei ricorrere ad un più prudente “ seint s’la sòuna”; se invece dovessi tradurre “senti la squilla” dando a squilla il significato antico di campanellino o campana non saprei a che santo votarmi, ma in base a quanto visto finora potrei risolvere con “seint la scèlla”e di conseguenza “seint s’la scèlla” ( senti come suona ) e al plurale “seint sa scèllen (senti come suonano).
Il termine scèlla, quindi, potrebbe essere stato originariamente il termine volgare locale con cui un tempo si chiamava la squilla, cioè il sonaglio - campanellino - campana, ( forse anche il verbo suonare – risuonare – squillare ) e solo successivamente il nome tradizionale della canna del canto della piva emiliana: la scèlla.
Se così fosse il termine in esame avrebbe un’attinenza diretta con la sua forma tipica ( la scèlla termina a campana, come tanti altri strumenti a fiato e ancora oggi, per indicare questo punto della canna, si dice “la campana” ) e indiretta con la sua funzione che è quella di suonare e risuonare e quindi con il concetto stesso di suono.
Inoltre il termine italiano squilla era utilizzato per indicare, specialmente, il campanello messo al collo degli animali.
Come è fatta una piva?
Così: un sacco ricavato da una pelle di pecora intera, due canne di bordone, un insufflatore, la scèlla.
Come si montano i pezzi di una piva?
In questo modo: si prende la pelle intera di una pecora, si legano le zampe posteriori, si pratica un foro all’altezza dello sterno per inserirvi l’insufflatore, nelle zampe anteriori si inseriscono i due bordoni.
La scèlla si infila nel collo.